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Il ruolo dell'Italia nel rinvio: perché Meloni ha chiesto 'pazienza' a Lula

Dentro la telefonata che ha congelato la stretta di mano: come Roma ha guidato la minoranza di blocco e cosa può ottenere entro gennaio

Il ruolo dell'Italia nel rinvio: perché Meloni ha chiesto 'pazienza' a Lula

Alle 17:08 di giovedì 18 dicembre 2025, a Brasilia, il presidente Luiz Inácio Lula da Silva entra in sala stampa e, quasi a bruciapelo, racconta una conversazione appena avuta con Giorgia Meloni: “Mi ha spiegato che non è contraria all’accordo, ma chiede tempo. Una settimana, 10 giorni, al massimo un mese”. È la parola che non ti aspetti — “pazienza” — a far deragliare, per ora, il rito della firma tra Unione europea e Mercosur. La cerimonia prevista per il 20 dicembre a Foz do Iguaçu salta. E a Bruxelles, dove la Commissione europea mirava a chiudere entro l’anno, si prende atto: la firma slitta a gennaio 2026. Di mezzo c’è l’Italia, c’è la Francia, c’è una fragile architettura di alleanze e concessioni che ridisegna gli equilibri nel negoziato commerciale più lungo della storia recente europea.

Un rinvio costruito a Bruxelles, annunciato in Sudamerica

Il rinvio non è un incidente di calendario: è l’esito di una precisa manovra politica. In sede di Consiglio, dove per autorizzare la firma serve una maggioranza qualificata — almeno 15 Stati su 27 che rappresentino il 65% della popolazione UE — si è coagulata una minoranza di blocco con Italia e Francia in testa, affiancate da Ungheria e Polonia, con astensioni o riserve annunciate in alcune capitali. Senza quei numeri, niente mandato a Ursula von der Leyen per apporre la firma. Da qui la decisione della Commissione: “posticipare a inizio gennaio” per trattare ancora con i Paesi che “hanno bisogno di un po’ più di tempo”.

Sul fronte francese, Emmanuel Macron è netto: “La Francia non è pronta a firmare”, ribadisce tra il 18 e il 19 dicembre, chiedendo clausole addizionali su reciprocità, controlli e standard ambientali e agricoli. È “troppo presto” per dire se Parigi darà il via libera a gennaio, ma l’Eliseo punta a trasformare il pacchetto in un “nuovo” Mercosur tramite garanzie operative.

La posizione italiana: tattica, piazze e dossier agricolo

L’Italia gioca di fino. In Parlamento, alla vigilia del Consiglio europeo, Giorgia Meloni definisce “prematura” la firma “nei prossimi giorni” e lega il sì di Roma alla definizione di un pacchetto di misure di salvaguardia per l’agricoltura e di garanzie di reciprocità. Non un no di principio, ma un braccio di ferro sul “come” e sul “quando”. La chiamata con Lula chiude il cerchio narrativo: Roma non intende sabotare l’accordo, ma chiede margine per costruire il consenso interno, a partire dalle organizzazioni di agricoltori che temono concorrenza “sleale” su carni bovine, pollame, cereali e materie prime.

Dietro c’è un calcolo politico: il rischio che la percezione, nelle campagne italiane, sia quella di un accordo che spalanca il mercato a prodotti a standard non equiparabili a quelli europei. Su questo punto, l’asse con Parigi è consolidato. E mentre Germania e Spagna spingono per chiudere, l’Italia utilizza la “finestra di tempo” per ottenere sul tavolo europeo un pacchetto più digeribile in casa.

Cosa c’è sul tavolo: salvaguardie, dichiarazioni accessorie e un fondo ad hoc

Per tenere a bordo gli scettici, la Commissione mette in campo due strumenti. Il primo è un set di clausole di salvaguardia “rapide” contro ondate anomale di importazioni, attivabili su prodotti sensibili. Il secondo — più politico — è una dichiarazione laterale (side declaration) per rassicurare soprattutto la Francia: non si riapre il trattato, ma si aggiunge un testo che vincola l’applicazione a regole su standard, controlli e monitoraggi, con tempi e sanzioni. A corredo, l’ipotesi (caldeggiata dall’industria e da vari Paesi) di un fondo di sostegno per compensare i settori esposti. Il messaggio è chiaro: Mercosur sì, ma con “airbag” per l’agricoltura europea.

La chiave sudamericana: tra frustrazione e realpolitik

Dal lato Mercosur, la delusione è palpabile: dopo 25 anni di negoziati, un nuovo rinvio pesa. Eppure la reazione di Lula dopo la telefonata con Meloni è misurata: farà presente la richiesta italiana ai partner e proverà a mantenere il clima collaborativo, anche perché Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay hanno interesse strategico ad ancorare l’Europa come contrappeso alla competizione globale, in un quadro in cui dazi e rischio di blocchi commerciali — anche dagli Stati Uniti — si moltiplicano.

Per Brasilia, il dossier ha rango geopolitico: non è solo commercio, ma posizionamento. Lo dice il ministro delle Finanze Fernando Haddad: l’accordo è “priorità geopolitica”, e un naufragio rimetterebbe in discussione la collocazione del Sudamerica tra Europa, Cina e USA. È anche il motivo per cui, pur irritati, i governi Mercosur hanno accettato la dilazione a gennaio 2026.

L’inchiesta diplomatica: come l’Italia ha costruito il rinvio

1) Il tempo come merce negoziale

La mossa italiana è stata dosare il tempo. Con una dichiarazione in Aula (“firmare adesso è prematuro”) e una telefonata calibrata a Lula (“non siamo contrari, dateci 10-30 giorni”), Meloni ha trasformato il calendario in leva, sapendo che senza Roma la maggioranza qualificata non c’era. Così l’Italia ha evitato il costo politico di un “no” secco e ha guadagnato un mese per ottenere garanzie scritte. Il rinvio, formalmente, lo annuncia l’esecutivo europeo: niente voto, niente firma, appuntamento a gennaio 2026.

2) La minoranza di blocco con Parigi (e la sponda di Budapest e Varsavia)

Il “nocciolo duro” del rinvio è l’asse Roma–Parigi, che ha trovato in Ungheria e Polonia alleati tattici. Francia e Italia hanno motivazioni affini — la protezione del settore agroalimentare e il tema della reciprocità sugli standard — ma linguaggi diversi: Macron usa parole muscolari (“non siamo pronti a firmare”), l’Italia insiste sul “serve spiegare e discutere con gli agricoltori” e legare il via libera a misure concrete. Politicamente, la postura italiana ha consentito a von der Leyen di evitare uno scontro frontale con l’Eliseo e, al tempo stesso, di non bruciare un accordo attesissimo da Germania e Spagna.

3) Le concessioni possibili entro gennaio

  • Clausole “anti-shock”: attivazione automatica o semi-automatica di limitazioni temporanee all’import in caso di surge dei volumi su prodotti sensibili (carni, zucchero, riso, miele, soia), con finestre di monitoraggio trimestrale. L’obiettivo è dare agli Stati membri uno “scudo” rapido, senza dover aprire contenziosi lunghi.
  • Dichiarazione interpretativa su standard e controlli: un testo laterale che specifichi obblighi su tracciabilità, deforestazione, fitosanitari, con audit congiunti e possibilità di sospensione mirata. È la strada più realistica perché non implica riaprire il testo principale.
  • Fondo di compensazione per l’agricoltura: risorse europee per accompagnare gli adeguamenti e compensare perdite in caso di shock competitivi localizzati. Schema già circolato informalmente tra le capitali, apprezzato dall’industria che teme contraccolpi politici se l’accordo saltasse.

4) Il ruolo della Commissione: tra pressing e prudenza

Per mesi Valdis Dombrovskis e lo staff commerciale della Commissione hanno ribadito che “la maggioranza degli Stati membri vuole chiudere”. Ma da Bruxelles si è capito che forzare la firma contro la volontà di Francia e un’Italia esitante sarebbe stato controproducente: un accordo “firmato ma non ratificabile” eroderebbe credibilità. Ecco perché l’opzione della side declaration ha preso quota nelle ultime settimane: inchiodare Parigi e Roma a garanzie supplementari senza riaprire il dossier all’infinito.

5) Il contesto esterno: dazi USA e competizione industriale

Sul negoziato pesa il vento contrario dei dazi statunitensi e la corsa ai mercati emergenti per l’industria europea (auto, meccanica, agroalimentare di qualità). Da Berlino e dall’industria tedesca della meccanica arriva un pressing pubblico: non si può rinviare “all’infinito” un accordo che riduce tariffe medie dell’11% sul loro settore e apre un mercato di oltre 700 milioni di persone. È l’altra faccia della medaglia delle proteste agricole.

La parola “pazienza” come segnale strategico

Perché Meloni ha chiesto “pazienza” a Lula? Per almeno tre ragioni.

  • Gestione interna del consenso. Con le piazze agricole in fibrillazione e regioni chiave sensibili al tema, blindare alcune garanzie scritte prima della firma è cruciale. Chiedere “tempo” evita di intestarsi un sì che potrebbe essere letto come “resa” verso importazioni a standard inferiori.
  • Rafforzare la leva negoziale. Spostare la decisione a gennaio 2026 mette pressione alla Commissione perché formalizzi le clausole promesse e consente all’Italia di pesare come “decisore pivotale” entro una finestra corta, invece di perdersi in un rinvio indefinito.
  • Preservare il rapporto con il Brasile. Dicendo a Lula “non siamo contrari”, Roma calma le acque con un partner strategico, mentre rimodula le condizioni a Bruxelles. Il tono conciliante di Lula dopo la telefonata mostra che la scommessa ha funzionato, almeno sul piano tattico.

Macron tra prudenza e pressione di piazza

La triangolazione con Parigi resta decisiva. Il 18 dicembre, alla vigilia del Consiglio, Macron ribadisce che “la Francia non è pronta a firmare”; il 19 aggiunge che spera in clausole approvabili entro gennaio, ma non garantisce l’esito. È la linea della fermezza responsabile: non incendiarsi con un “no” definitivo, ma pretendere reciprocità piena e controlli. Il governo francese, stretto tra proteste agricole e il timore di apparire isolato, trova nell’Italia un’alleata meno rumorosa e più negoziale.

Cosa succede ora: tre scenari per gennaio

  • Accordo con paracadute. La Commissione formalizza salvaguardie e una dichiarazione robusta su standard e controlli. Italia si allinea, la Francia prende atto e non blocca. Firma a gennaio, poi inizio di un percorso di ratifiche e implementazione graduale. È lo scenario che Germania e Spagna sponsorizzano.
  • Rinvio tecnico aggiuntivo. Le capitali chiedono più tempo per chiudere il testo laterale. Si scivola di qualche settimana, senza rotture, con l’impegno politico di chiudere comunque entro il primo trimestre 2026. Rischio: logoramento con il Mercosur.
  • Impasse politico. La Francia mantiene il “non possumus”, l’Italia non formalizza il sì e la minoranza di blocco regge. A quel punto, Lula dovrebbe decidere se congelare o riaprire il tavolo. È lo scenario che molti a Bruxelles temono da anni.

L’equilibrio delicato tra agricoltura e industria

Il cuore del dilemma è qui: come far convivere gli interessi di agricoltori che temono una concorrenza percepita come “squilibrata” con quelli di un’industria europea che ha urgenza di nuovi mercati e regole stabili? Nella fase finale della trattativa, la parola chiave è reciprocità: non solo promesse sul disboscamento o sulla tracciabilità, ma meccanismi eseguibili in caso di violazioni. È su questo che Macron e Meloni chiedono risposte “operative”, non dichiarazioni d’intenti.

L’ultima curva: perché gennaio è davvero diverso

Si potrebbe pensare che gennaio 2026 sia un semplice slittamento. Non lo è. Due fattori lo rendono un momento-chiave:

  • Il pacchetto di salvaguardie e la dichiarazione accessoria, se ben congegnati, possono “ridisegnare” l’accordo senza riscriverlo, offrendo una sponda politica decisiva a Roma e Parigi.
  • La pressione esterna — dazi, catene del valore in movimento, concorrenza asiatica — aumenta il costo politico di un fallimento. È anche per questo che, pur a denti stretti, il Mercosur accetta di aspettare “una settimana, 10 giorni, al massimo un mese”.

Una conclusione provvisoria: pazienza come metodo

Nel lessico della diplomazia, la “pazienza” richiesta da Giorgia Meloni a Lula non è un rinvio sine die: è una moneta di scambio per ottenere clausole e garanzie capaci di trasformare un sì fragile in un sì politicamente sostenibile. L’Italia ha assunto il ruolo di “ponte” tra le urgenze industriali europee e le apprensioni del mondo agricolo, costruendo — insieme alla Francia — una minoranza di blocco che ha costretto Bruxelles a riaprire il cassetto delle tutele.

Se a gennaio 2026 il patto si firmerà, sarà anche perché, in quei 10-30 giorni guadagnati, qualcuno avrà materializzato per iscritto ciò che finora era rimasto nelle conferenze stampa e nelle dichiarazioni politiche. Se invece non basterà, la parola “pazienza” rischia di cambiare segno: da virtù tattica a sinonimo di stallo. In ogni caso, da questa settimana di dicembre resta una certezza: la politica commerciale europea si fa ancora — e soprattutto — mettendo insieme numeri, alleanze e tempi. L’Italia, questa volta, li ha avuti tutti e tre.

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