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Bruxelles
19.12.2025 - 12:48
Alle 17:08 di giovedì 18 dicembre 2025, a Brasilia, il presidente Luiz Inácio Lula da Silva entra in sala stampa e, quasi a bruciapelo, racconta una conversazione appena avuta con Giorgia Meloni: “Mi ha spiegato che non è contraria all’accordo, ma chiede tempo. Una settimana, 10 giorni, al massimo un mese”. È la parola che non ti aspetti — “pazienza” — a far deragliare, per ora, il rito della firma tra Unione europea e Mercosur. La cerimonia prevista per il 20 dicembre a Foz do Iguaçu salta. E a Bruxelles, dove la Commissione europea mirava a chiudere entro l’anno, si prende atto: la firma slitta a gennaio 2026. Di mezzo c’è l’Italia, c’è la Francia, c’è una fragile architettura di alleanze e concessioni che ridisegna gli equilibri nel negoziato commerciale più lungo della storia recente europea.
Il rinvio non è un incidente di calendario: è l’esito di una precisa manovra politica. In sede di Consiglio, dove per autorizzare la firma serve una maggioranza qualificata — almeno 15 Stati su 27 che rappresentino il 65% della popolazione UE — si è coagulata una minoranza di blocco con Italia e Francia in testa, affiancate da Ungheria e Polonia, con astensioni o riserve annunciate in alcune capitali. Senza quei numeri, niente mandato a Ursula von der Leyen per apporre la firma. Da qui la decisione della Commissione: “posticipare a inizio gennaio” per trattare ancora con i Paesi che “hanno bisogno di un po’ più di tempo”.
Sul fronte francese, Emmanuel Macron è netto: “La Francia non è pronta a firmare”, ribadisce tra il 18 e il 19 dicembre, chiedendo clausole addizionali su reciprocità, controlli e standard ambientali e agricoli. È “troppo presto” per dire se Parigi darà il via libera a gennaio, ma l’Eliseo punta a trasformare il pacchetto in un “nuovo” Mercosur tramite garanzie operative.
L’Italia gioca di fino. In Parlamento, alla vigilia del Consiglio europeo, Giorgia Meloni definisce “prematura” la firma “nei prossimi giorni” e lega il sì di Roma alla definizione di un pacchetto di misure di salvaguardia per l’agricoltura e di garanzie di reciprocità. Non un no di principio, ma un braccio di ferro sul “come” e sul “quando”. La chiamata con Lula chiude il cerchio narrativo: Roma non intende sabotare l’accordo, ma chiede margine per costruire il consenso interno, a partire dalle organizzazioni di agricoltori che temono concorrenza “sleale” su carni bovine, pollame, cereali e materie prime.
Dietro c’è un calcolo politico: il rischio che la percezione, nelle campagne italiane, sia quella di un accordo che spalanca il mercato a prodotti a standard non equiparabili a quelli europei. Su questo punto, l’asse con Parigi è consolidato. E mentre Germania e Spagna spingono per chiudere, l’Italia utilizza la “finestra di tempo” per ottenere sul tavolo europeo un pacchetto più digeribile in casa.
Per tenere a bordo gli scettici, la Commissione mette in campo due strumenti. Il primo è un set di clausole di salvaguardia “rapide” contro ondate anomale di importazioni, attivabili su prodotti sensibili. Il secondo — più politico — è una dichiarazione laterale (side declaration) per rassicurare soprattutto la Francia: non si riapre il trattato, ma si aggiunge un testo che vincola l’applicazione a regole su standard, controlli e monitoraggi, con tempi e sanzioni. A corredo, l’ipotesi (caldeggiata dall’industria e da vari Paesi) di un fondo di sostegno per compensare i settori esposti. Il messaggio è chiaro: Mercosur sì, ma con “airbag” per l’agricoltura europea.
Dal lato Mercosur, la delusione è palpabile: dopo 25 anni di negoziati, un nuovo rinvio pesa. Eppure la reazione di Lula dopo la telefonata con Meloni è misurata: farà presente la richiesta italiana ai partner e proverà a mantenere il clima collaborativo, anche perché Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay hanno interesse strategico ad ancorare l’Europa come contrappeso alla competizione globale, in un quadro in cui dazi e rischio di blocchi commerciali — anche dagli Stati Uniti — si moltiplicano.
Per Brasilia, il dossier ha rango geopolitico: non è solo commercio, ma posizionamento. Lo dice il ministro delle Finanze Fernando Haddad: l’accordo è “priorità geopolitica”, e un naufragio rimetterebbe in discussione la collocazione del Sudamerica tra Europa, Cina e USA. È anche il motivo per cui, pur irritati, i governi Mercosur hanno accettato la dilazione a gennaio 2026.
La mossa italiana è stata dosare il tempo. Con una dichiarazione in Aula (“firmare adesso è prematuro”) e una telefonata calibrata a Lula (“non siamo contrari, dateci 10-30 giorni”), Meloni ha trasformato il calendario in leva, sapendo che senza Roma la maggioranza qualificata non c’era. Così l’Italia ha evitato il costo politico di un “no” secco e ha guadagnato un mese per ottenere garanzie scritte. Il rinvio, formalmente, lo annuncia l’esecutivo europeo: niente voto, niente firma, appuntamento a gennaio 2026.
Il “nocciolo duro” del rinvio è l’asse Roma–Parigi, che ha trovato in Ungheria e Polonia alleati tattici. Francia e Italia hanno motivazioni affini — la protezione del settore agroalimentare e il tema della reciprocità sugli standard — ma linguaggi diversi: Macron usa parole muscolari (“non siamo pronti a firmare”), l’Italia insiste sul “serve spiegare e discutere con gli agricoltori” e legare il via libera a misure concrete. Politicamente, la postura italiana ha consentito a von der Leyen di evitare uno scontro frontale con l’Eliseo e, al tempo stesso, di non bruciare un accordo attesissimo da Germania e Spagna.
Per mesi Valdis Dombrovskis e lo staff commerciale della Commissione hanno ribadito che “la maggioranza degli Stati membri vuole chiudere”. Ma da Bruxelles si è capito che forzare la firma contro la volontà di Francia e un’Italia esitante sarebbe stato controproducente: un accordo “firmato ma non ratificabile” eroderebbe credibilità. Ecco perché l’opzione della side declaration ha preso quota nelle ultime settimane: inchiodare Parigi e Roma a garanzie supplementari senza riaprire il dossier all’infinito.
Sul negoziato pesa il vento contrario dei dazi statunitensi e la corsa ai mercati emergenti per l’industria europea (auto, meccanica, agroalimentare di qualità). Da Berlino e dall’industria tedesca della meccanica arriva un pressing pubblico: non si può rinviare “all’infinito” un accordo che riduce tariffe medie dell’11% sul loro settore e apre un mercato di oltre 700 milioni di persone. È l’altra faccia della medaglia delle proteste agricole.
Perché Meloni ha chiesto “pazienza” a Lula? Per almeno tre ragioni.
La triangolazione con Parigi resta decisiva. Il 18 dicembre, alla vigilia del Consiglio, Macron ribadisce che “la Francia non è pronta a firmare”; il 19 aggiunge che spera in clausole approvabili entro gennaio, ma non garantisce l’esito. È la linea della fermezza responsabile: non incendiarsi con un “no” definitivo, ma pretendere reciprocità piena e controlli. Il governo francese, stretto tra proteste agricole e il timore di apparire isolato, trova nell’Italia un’alleata meno rumorosa e più negoziale.
Il cuore del dilemma è qui: come far convivere gli interessi di agricoltori che temono una concorrenza percepita come “squilibrata” con quelli di un’industria europea che ha urgenza di nuovi mercati e regole stabili? Nella fase finale della trattativa, la parola chiave è reciprocità: non solo promesse sul disboscamento o sulla tracciabilità, ma meccanismi eseguibili in caso di violazioni. È su questo che Macron e Meloni chiedono risposte “operative”, non dichiarazioni d’intenti.
Si potrebbe pensare che gennaio 2026 sia un semplice slittamento. Non lo è. Due fattori lo rendono un momento-chiave:
Nel lessico della diplomazia, la “pazienza” richiesta da Giorgia Meloni a Lula non è un rinvio sine die: è una moneta di scambio per ottenere clausole e garanzie capaci di trasformare un sì fragile in un sì politicamente sostenibile. L’Italia ha assunto il ruolo di “ponte” tra le urgenze industriali europee e le apprensioni del mondo agricolo, costruendo — insieme alla Francia — una minoranza di blocco che ha costretto Bruxelles a riaprire il cassetto delle tutele.
Se a gennaio 2026 il patto si firmerà, sarà anche perché, in quei 10-30 giorni guadagnati, qualcuno avrà materializzato per iscritto ciò che finora era rimasto nelle conferenze stampa e nelle dichiarazioni politiche. Se invece non basterà, la parola “pazienza” rischia di cambiare segno: da virtù tattica a sinonimo di stallo. In ogni caso, da questa settimana di dicembre resta una certezza: la politica commerciale europea si fa ancora — e soprattutto — mettendo insieme numeri, alleanze e tempi. L’Italia, questa volta, li ha avuti tutti e tre.
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