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Filiera agroalimentare, 100 euro alla cassa: quanti arrivano davvero all’agricoltore?

Le ultime analisi di Ismea sulla catena del valore agroalimentare mostrano un dato difficile da ignorare: su 100 euro spesi dal consumatore per il cibo, all’agricoltura italiana resta un utile di pochi euro, intorno ai 6–7

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Le ultime analisi di Ismea sulla catena del valore agroalimentare mostrano un dato difficile da ignorare: su 100 euro spesi dal consumatore per il cibo, all’agricoltura italiana resta un utile di pochi euro, intorno ai 6–7. Il resto si disperde tra trasformazione, commercio e trasporto, altri fornitori di beni e servizi, prodotti esteri e tassazione. 

Per gli imprenditori agricoli significa margini sempre più stretti.
Per la politica è un campanello d’allarme sulle condizioni del settore primario.
Per chi fa la spesa è l’occasione per capire cosa c’è davvero dietro lo scontrino.

Cosa ci dicono i numeri di Ismea

L’analisi di Ismea, basata sui dati Istat più recenti e presentata nel Rapporto agroalimentare 2024, ricostruisce come vengono distribuiti i 100 euro spesi dalle famiglie lungo l’intera filiera. 

Per i prodotti agricoli freschi (in prevalenza ortofrutta):

  • circa 19,8 euro rappresentano il valore aggiunto generato dagli agricoltori;

  • ma, una volta sottratti salari e ammortamenti, l’utile netto che resta alle aziende agricole scende a circa 7 euro;

  • il macro–settore commercio e trasporto genera oltre 42 euro di valore aggiunto e trattiene un utile di quasi 19 euro;

  • gli altri settori (mezzi tecnici, servizi, credito, energia…) sommano 16 euro di valore aggiunto e 8 euro di utile;

  • una parte della spesa finisce in prodotti esteri e in beni intermedi importati;

  • circa 8 euro sono rappresentati da imposte indirette e dirette lungo la filiera. 

Quando si passa ai prodotti alimentari trasformati (pasta, prodotti da forno, derivati carne, latte trasformato, ecc.), il peso dell’agricoltura scende ulteriormente:

  • su 100 euro di spesa, il valore aggiunto agricolo si riduce a 4,4 euro;

  • l’utile netto per l’agricoltore è di appena 1,5 euro, contro oltre 13 euro trattenuti da commercio e trasporto;

  • l’industria alimentare genera 9,7 euro di valore aggiunto, con un margine operativo netto di circa 2,2 euro;

  • cresce il peso di imposte e importazioni di prodotti finiti e semilavorati. 

In altre parole: la parte più consistente del valore si concentra nei segmenti a valle, logistica e distribuzione in primis, mentre la fase agricola resta la meno remunerata, pur essendo quella da cui tutto ha origine.


Cosa significa per chi fa impresa in agricoltura

Per gli imprenditori agricoli, quei 6–7 euro su 100 non sono una curiosità statistica, ma la fotografia di una struttura economica che mette sotto pressione il reddito aziendale.

Ismea evidenzia che, negli ultimi dieci anni, la quota di valore riconosciuta al settore primario si è progressivamente ridotta, con margini operativi spesso compressi fino a diventare negativi in filiere come quella del frumento duro per la pasta o della carne bovina. In diversi casi, il bilancio si mantiene in equilibrio solo grazie ai sostegni pubblici (Pac e aiuti nazionali). Per chi gestisce un’azienda agricola questo si traduce in:

  • difficoltà a programmare investimenti di medio periodo (stalle, macchine, innovazione, transizione ecologica);

  • minore capacità di assorbire shock esterni (clima estremo, volatilità dei prezzi, costi energetici, tassi di interesse);

  • fatica nel garantire continuità generazionale, perché i giovani vedono un rapporto rischi/margini spesso sfavorevole.

Quando il margine netto sull’ultimo anello agricolo vale pochi euro su 100 spesi alla cassa, ogni aumento di costo – gasolio, mangimi, fertilizzanti, servizi finanziari – incide in modo sproporzionato. È qui che la questione “catena del valore” si intreccia con la sopravvivenza stessa delle imprese.


Il ruolo della politica: riequilibrare una filiera sbilanciata

I dati di Ismea parlano di squilibri strutturali nella distribuzione del valore: le fasi più a valle, come logistica e distribuzione, trattengono stabilmente la quota più elevata, mentre la fase agricola resta l’anello debole. 

Per chi governa e amministra, questo pone almeno tre grandi questioni.

  1. Trasparenza e pratiche commerciali lungo la filiera

    • Rafforzare strumenti che monitorano i rapporti di forza tra produzione, industria e grande distribuzione.

    • Contrastare pratiche sleali e ritardi nei pagamenti che scaricano sui produttori agricoli il peso delle tensioni di mercato.

  2. Politiche di reddito e competitività del settore primario

    • Sostenere investimenti in tecnologie, efficienza energetica, gestione del rischio climatico.

    • Valutare con attenzione l’impatto di ogni nuova norma su margini già sottili: costi amministrativi, obblighi tecnici, requisiti ambientali non possono essere aggiunti senza considerare chi se ne fa carico.

  3. Strategia sulle importazioni e sull’autosufficienza

    • Il crescente peso di prodotti esteri e di beni intermedi importati, messo in evidenza dallo stesso rapporto Ismea, rende alcune filiere vulnerabili a shock internazionali (costi dei cereali, crisi sanitarie negli allevamenti esteri, tensioni geopolitiche). 

    • Una politica agroalimentare lungimirante deve interrogarsi su quale livello di autosufficienza l’Italia intende garantire e con quali strumenti.

Se l’obiettivo dichiarato è difendere il made in Italy agroalimentare, i numeri della catena del valore indicano che la tenuta economica delle aziende agricole deve diventare una priorità reale, non solo un richiamo nelle occasioni pubbliche.


Cosa può fare (davvero) il consumatore

Anche chi fa la spesa ha un ruolo, pur sapendo che il problema non può essere scaricato solo sul singolo cittadino.

Capire che, su 100 euro di scontrino, all’agricoltore resta un margine di pochi euro aiuta a:

  • leggere con maggiore attenzione origine e tracciabilità dei prodotti;

  • preferire, quando possibile, filiere corte, mercati contadini, acquisti diretti o cooperative che valorizzano il lavoro dei produttori;

  • cogliere la differenza tra un prezzo “in promozione” frutto di efficienze e uno che probabilmente comprime i margini dell’anello più debole.

È chiaro che non tutti possono orientarsi sempre verso i prodotti con il prezzo più alto; ma avere consapevolezza di come si distribuisce il valore significa poter fare scelte più informate, soprattutto su alcune categorie chiave (carne, latte, pasta, ortofrutta).


Verso una filiera che tenga insieme reddito agricolo, competitività e fiducia

I dati di Ismea non sono un atto d’accusa verso una singola componente della filiera. Dicono piuttosto che il modello attuale tende a premiare soprattutto chi sta a valle, in particolare commercio e trasporto, mentre chi produce materie prime agricole si trova a gestire rischi elevati con margini ridotti.

Per gli imprenditori agricoli, avere numeri ufficiali a supporto di questa lettura significa poter chiedere, con maggiore forza, condizioni più eque nei rapporti di filiera e nelle scelte politiche.

Per la politica, è l’occasione per ripensare strumenti di intervento – dalla contrattazione di filiera alle misure fiscali, dagli incentivi agli investimenti fino alla semplificazione burocratica – con un obiettivo chiaro: aumentare la quota di valore che resta nelle campagne, senza compromettere la competitività complessiva del sistema.

Per il consumatore, infine, questi 100 euro “scomposti” sono un promemoria: dietro ogni prodotto c’è una catena lunga, e la tenuta dell’agricoltura non è un tema astratto, ma qualcosa che incide sulla qualità del cibo, sulla sicurezza degli approvvigionamenti, sul paesaggio e sulle comunità rurali in cui viviamo o che frequentiamo.

Se vogliamo che domani ci siano ancora aziende agricole in grado di produrre latte, carne, cereali, frutta e ortaggi in Italia, la domanda da farsi è semplice: quanta parte di quei 100 euro siamo disposti a far arrivare a chi lavora la terra?

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